Elogio della vision pura

Omaggio a due artisti CIUSSI E DORAZIO

DA MARTEDÌ 14 A SABATO 29 OTTOBRE 2005

Poesia della pura visibilità, sperimentazioni ottiche, rimandi intriganti alla dinamica geometria-luce-colore accomunano le ricerche pittoriche del romano Piero Dorazio e dell’udinese Carlo Ciussi.

Entrambi partecipano ai movimenti e alle tendenze che, a partire dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento, misero in discussione il concetto di immagine, contribuendo al rinnovamento rivoluzionario delle strutture linguistiche e affermando la validità di un’esperienza condotta sui “valori concreti della forma”. L’orientamento non voleva significare formalistiche restaurazioni. Intervenendo infatti nell’accesa polemica tra figurativi e astratti nell’Italia del secondo dopoguerra, Giulio Carlo Argan dichiarava nel 1961 che “l’arte, come la scienza, adempie al fine sociale in quanto sia, anzitutto, arte; ed è impossibile pensare una nuova struttura sociale in cui l’arte non abbia, anch’essa,una nuova struttura”. Nel dibattito si inserì operativamente il gruppo Forma 1 costituitosi a Roma già nel 1947, di cui con Dorazio facevano parte, fra gli altri, Carla Accardi, Ugo Attardi, Pietro Consagra, Achille Perilli, Giulio Turcato. “Ciò che gli artisti di Forma 1 capirono prima degli altri – affermava Agan – “è che rivoluzione dell”arte è più utile, al fine della rivoluzione, che un’arte per la rivoluzione”.

Dorazio, uno dei più importanti artisti italiani della seconda metà del Novecento per impegno culturale, coscienza critica, padronanza stilistica, si formò tra Roma e Parigi e strinse amicizie e rapporti con i massimi maestri dell”International Style, da Brancusi a Kandinskji, da Nicolas De Stael, e dai russi Larionov e Gonçarova a Rothko, Reinhardt Newman, conosciuti negli Stati Uniti dove, nei primi anni Sessanta, aveva diretto il Dipartimento di Belle Arti dell’Università della Pensylvania e fondato l’Institute of Contemporany Art. Le sue ricerche sul colore da un lato avevano quindi accesa vitalità e forti accentuazioni mediterranee, dall’altro risentivano delle fosforescenza metropolitane e delle luci cangianti dell’ambiente americano.
Ciussi invece, passato solo un breve periodo a Roma durante il servizio militare di leva, ebbe la propria iniziazione a Venezia, Parigi e Milano, con un’intonazione tutta settentrionale se non addirittura mitteleuropea. In entrambi gli artisti, comunque, i segni non rimandano ad altro, diventano essi stessi significato, sottraendosi a ogni condizionamento interpretativo. Ciò che vediamo non è la realtà ma, di volta in volta, un ensemble uscito da invenzioni del tutto autonome rispetto all’orizzonte fenomenico, tali dunque da “fondare” una parallela realtà mentale. Le Trame o Textures o Reticoli realizzati da Dorazio tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta sono stati definiti “filtri luminosi di colore, campi di forza e di dilatazione della luce”: brusio e macchie cromatiche forti, contrasti di luce e ombra, intrecci fittissimi come nodi di antichi tappeti nei quali improvvise irregolarità dei filamenti verticali, orizzontali, diagonali fanno sussultare, suscitano misteriose tensioni; una pittura “sensitiva”, inquietante, intessuta di tracce e di vibrazioni di enigmatica memoria lirica, distesa e decantata su ampie superfici con decoratività sincopata e sommessa. Successivamente le taccheggiatore si dilatano nell’intersecarsi di larghe bande ortogonali e diagonali di policromie contrastanti, stese con grafia chiara, colori brillanti, talvolta violenti, ma sempre tenuti in misure equilibratate; generano effetti di sfasamento fra i piani e complesse partiture architettoniche. Un ulteriore sviluppo va registrato negli anni Settanta. I comparti cromatici si articolano in compenetrazioni di forme triangolari, in cunei inseriti entro griglie chiuse da parallele fasce orizzontali, in un distendersi largo di forme sovrapposte, sfrangiate; l’effetto è di mosaico astratto o di vetrate decorative trapassate da meridiane solarità. Seguono un irraggiare di brillanti tracciati segnico-cromatici, come una sequela di scintilligrafie, un rincorrersi di punti luminosi da diagramma cerebrale, una pioggia di stelle cadenti, un pulviscolo di meteoriti in azzurri cieli notturni: e poi grandi masse di colori puri composte asimmetricamente. Fino al ritorno ai percorsi di nastri cromatici vibranti, alle sottili iterazioni, all’irrompere di fuochi della fantasia, di inedite provocazioni percettive tramate da orme come di foglie puntiate, di allusioni atmosferiche, di roghi cosmici, di fughe; sequenze di analisi cromatico-luministiche dalle infinite modulazioni. Il discorso a masse, a blocchi di colori che si articolano morbidi e traslucidi, raggiunge effetti paragonabili alle accelerazioni tonali della musica dodecafonica. La radice mitteleuropea cui si accennava a proposito di Ciussi è rintracciabile nella particolare lettura dell’Informale data nel 1962 con il ciclo Paese perduto, collocabile tra le matrici figurali di Afro e un quasi kafkiano senso angoscioso della natura e della storia. L’evocazione del luogo – così come in Lettere da Skoplje del 1962-1963 – diventa un baluginio di brevi e oscure concentrazioni cromatiche, fra un groviglio di curve e di segmenti. Le composizioni dilatano magmaticamente la riflessione focalizzata su un senso di straniamento e d’alienazione. La salvezza sta nel ritrovato esprit de géométrie cartesiano. Su stesure cromaticamente sobrie tendenti alla monocromia si infilano a poco a poco fittissimi reticoli, “punti a croce”, bianchi quadrati, cerchi catramosi, sbarre incrociate. Queste iterazioni di iconogrammi elementari denotano corrispondenze con le Textures di Dorazio, e tuttavia calate in aure drammatiche e notturne. La composizione si suddivide in comparti che generano nuovi comparti, angoli si intrecciano con ricchezza di varianti. La trama instabile si trasforma in dialettica di forme primarie. I diversi temi pittorici si sviluppano uno dall’altro con necessità logica. Il ruotare dei quadrati su se stessi dà origine a settori circolari perfettamente equilibrati in purissime policromie ricavate con operazioni quasi da “sezione aurea”. Quadrati, cerchi, fasce orizzontali, si producono per una sorta di razionalistica partenogenesi, intrisi di colori a stesure piane accostate con risentite vibrazioni tonali. La forma si fa categoria dell’intelletto tesa a fissare l’ineffabile universalità dell’idea, traducendosi anche in riflessione sulle strutture portanti della storia della pittura: dalle tarsie romaniche alla visionaria “poesia mentale” di Paolo Uccello e di Piero della Francesca, fino ai moderni, da Mondrian e Malevic e alle esperienza del Bauhaus. La pittura teorizza se stessa e scopre le proprie segrete strutture. Razionalità e fantasia. Ciussi arriva, così, alle Fasce o Bande sovrapposte, di “sontuosa” severità francescana le cui sonorità – è stato osservato – richiamano la musica di Bach. All”inizio degli anni Novanta il fluido ondeggiare delle Serpentine apre la fase “barocca” dopo quella dell”umanesimo geometrico. Segni sinuosi si annodano e divergono su fondi resi con elaborata sostanza di colori stratificati, movimentati dal ritorno alla pittura di macchia, a ritmi di sincopati. Sulle superfici sembrano proiettarsi il ricordo di minoiche pitture vascolari, ma anche le sinuosità della Secessione viennese. Finché la continuità del segno si frammenta su fondi di un grigio morbido e luminoso. Nel ricordo, forse di Klee fitti orditi dinamici di angoli retti e acuti deflagrano simili a un accumulo di scritture cuneiformi tracciate alla rinfusa, disseminate nel vento. E si arriva al capitolo attuale, in cui il ritorno a una gestualità emotiva è controllato da eleganti scansioni di tasselli larvatamente geometrici.

Licio Damiani